Le 100 Domande

Uno spazio interamente dedicato agli Allievi e a chi segue la nostra Scuola, nei diversi ruoli sociali e lavorativi. Tutti possono inviarci Domande di carattere applicativo
e metodologico sui temi inerenti i gruppi, i conflitti, le emozioni, la convivenza relazionale. Chiediamo di formulare le Domande in forma sintetica e semplice. Le nostre risposte vorranno essere: a) brevi; b) con taglio concreto; c) con scrittura semplice.
Un blocco consistente di 100 Domande è del 2021, a questa mole di quesiti vanno a seguire via via altre domande.

Domanda-110 (18 dicembre 2024)

Quando sono convinta di una cosa io appaio spesso agli altri come insistente, fastidiosa e a volte anche aggressiva. Quello che succede è che più una persona, una situazione, un cliente mi sta a cuore, più corro il rischio di “sbagliare modo”, pur mossa dalle più nobili intenzioni. La domanda che mi sono fatta è: come posso fare ad essere assertiva “al punto giusto”?

Elisa, 17 dic. 2024

 

Apprezzo tanto la tua domanda, che mi dà il sentore di una tua buona capacità di auto-osservazione. Quello che racconti è che partono ravanelli e arrivano carciofi, quindi una scollatura tra dentro e fuori. Puoi provare con un Io-assertivo che chiamiamo “aperto”. Di cosa si tratta? Un messaggio assertivo ha un carattere volitivo, di espressione di sé pur nel rispetto dell’altro. L’Io assertivo aperto è costruito sempre su di un messaggio volitivo, la differenza qui è data dal carattere di apertura maggiore che si cerca presso l’altro. Ad una affermazione possiamo aggiungere una domanda, schematicamente io-assortivo+feedback.

Cosa non fare? Forzare l’assertività, che rischia di diventare perentoria e senza sbocco dialettico e dialogico. Un esempio su cui puoi provare: “Quello che dici Sandra è una questione di impegno, di darsi un obiettivo… mi domando, è pensabile, come la vedi tu?” Seguendo questo suggerimento puoi sperimentare un modo più integrato, morbido e puoi vedere se azzecchi meglio un tuo modo. Buona facilitazione!

Pino De Sario, 18 dic. 2024


Domanda-109 (4 dicembre 2024)

Riunione all’interno di un’associazione, siamo in un gruppo piccolo (5-7 persone) e l’obiettivo dell’incontro è sia condividere come stiamo ma anche prendere delle decisioni su delle attività. Il mio ruolo non è di facilitatrice, quindi sono coinvolta nella discussione. Ogni volta che si prova ad affrontare un tema si tende ad andare sempre nella direzione del pettegolezzo (tipo lui/lei non ha detto/non ha fatto) invece di affrontare i contenuti. Come far sì che possa emergere la negatività senza scivolare nel pettegolezzo?

Emilia, 4 dic. 2024

 

Ë proprio una grande consuetudine quella di perdersi nel pettegolezzo, oppure altre volte, nelle minuzie, nei particolari; in effetti il pettegolezzo lo potremmo vedere anche sotto questa luce: ci perdiamo nelle super-nicchie di pensiero-vissuto per non vedere il paesaggio più vasto. Un classico di noi umani, creature potenti ma anche fragili. La strada maestra vede due possibilità.

La prima, spingere qualche contenuto oltre la barriera del pettegolezzo e fare in modo che al primo argomento vi possiate fermare per approfondire, se possibile con più turni di parola. Questo sarebbe un buono spostamento, almeno sul terreno di argomenti vivi per l’associazione. Ricordo che approfondimento (profondità) e circolarità sono due ingredienti molto buoni per poter voltare pagina, dalla complicanza alla facilitazione.

La seconda, è che tu come membro dell’associazione possa proporre un momento di “circle-time”, ovvero di ascolto nel cerchio, coi tuo compagni e amici. Questo drenerebbe parte del pettegolezzo e lo tramuterebbe in una forma migliore di espressione personale. Qui il punto è mettere elementi umanizzanti e collettivi nuovi, che hanno il pregio di coinvolgere e richiamare parti migliori delle singole persone. Una domanda di ingresso che puoi proporre è: “come stiamo nel gruppo, un sentimento buono e uno difficile?, facciamo un giro”, al quale anche tu ovviamente prendi parola. Buona facilitazione!

Pino De Sario, 4 dic. 2024


Domanda-108 (4 novembre 2024)

Spesso durante le riunioni che svolgiamo con la nostra Coordinatrice noto (da pari) che alcune colleghe hanno timore a far sentire i propri pareri, perché fra noi è presente una persona del gruppo che sovrasta tutti ed intimorisce con la presenza e la voce chi ha idee diverse dalle sue. Come posso fare per interrompere questa negatività?

Rita, 4 nov. 2024

 

La strada unica ed efficace è l’aderenza ai fatti concreti, spingere la persona che sovrasta nel “fiume” dei fatti, stando ben attenti a che non debordi fuori dagli argini. Stando sui fatti, provando ad allinearsi, vedi parola chiave, vedi fare domande ficcanti, anche il tono vocale si contiene. E poi, anche da pari, richiedere il parare di altri colleghi, puoi farlo, anche se non sei la coordinatrice. Così da stemperare la massa di parole e di intensità vocale a favore della circolarità di parola. È vero persone accentratrici che fanno pressione con monologhi e prosodia alta hanno un impatto difficile e sgradevole, il punto è non enfatizzare questo stesso impatto e rimboccarsi le maniche per migliorare quella condizione personale e di gruppo. Buona facilitazione!

Pino De Sario, 4 nov. 2024


Domanda-107 (22 ottobre 2024)

Lavoro come educatrice e come coordinatrice pedagogica in una scuola Montessoriana. Ho una domanda in merito alla gestione delle relazioni in équipe: come posso evitare la diffusione di “voci di corridoio” che sono la causa di malesseri e di incremento della negatività all’interno nel gruppo educativo? Vorrei fare in modo che le persone parlino direttamente con me quando ci sono dei malesseri/questioni da risolvere.

Federica, 22 ott. 2024

 

Le voci di corridoio sono forme comunicative dissonanti e fisiologiche, che mai riusciremo ad azzerare, perché biologicamente dentro il nostro corredo umano e psicologicamente agiscono da facili scorciatoie. Quindi, primo suggerimento è metterle un po’ in conto. Dall’altra, è possibile dare sempre maggiori centralità ad alcune pratiche virtuose, tra cui la riunione e la sicurezza psicologica.

Primo, la riunione, se provi a introdurre riunioni più coinvolgenti, dove tutti possono dire (ossigeno mentale) e vengono ascoltati, con ritmo e pluralità nei turni, credo che le persone via via possano preferire quel momento deputato dove le cose si cerca di comprenderle e anche risolverle, rispetto al parlare a vanvera, senza costrutto.

Secondo, la sicurezza psicologica è quello stato di gruppo in cui si possono correre “rischi relazionali”, come porre domande scomode, ammettere errori, criticare un progetto, mettere in discussione il comportamento altrui, senza temere che questo possa sfociare in giudizi squalificanti o in una punizione. Prova a introdurla e ad accompagnarla passo dopo passo, sembra difficile sì (gli adulti spesso sono ambivalenti, vogliono e neanche no), va sviluppata un passo alla volta. Il guadagno per il gruppo è dato dall’acquisizione di un “ambiente sicuro”, almeno un po’, la vera chiave per la riduzione di malintesi, triangolazioni, parlare dietro, scaricabarile, alimentando come siamo spesso insulsi, malessere e altro malessere. La strada sappiamo che c’è, e va percorsa con pazienza e volontà. Buona facilitazione!

Pino De Sario, 22 ott. 2024


Domanda-106 (23 maggio 2024)

È un momento difficile in cooperativa, un collega dopo tanti anni si è dimesso e l’atmosfera è tesa. Le riunioni che svolgiamo sono solo rivolte ai piani di miglioramenti e traguardi futuri, la socia fondatrice (SF), non prevede uno spazio dedicato all’ascolto del malessere che si avverte. Con i colleghi le riportiamo alcune difficoltà, tra cui una grande fatica e la mancanza di un metodo partecipativo. La proposta viene subito cestinata da lei, che, lanciando qualche frecciata sulle singole persone, incluso me, spiega invece come secondo la sua visione dovremmo lavorare. Ci dice anche che se sentiamo troppa fatica è meglio che andiamo a lavorare nel pubblico, dove gli orari e il lavoro sono minori.

La mia sensazione è quella di perdere velocemente le staffe, me ne rendo conto e cerco di controllare il batticuore. Provo allora a spiegare meglio e con più chiarezza che le nostre non sono lamentele ma stiamo riportando delle difficoltà. Ma non funziona, mi viene tolta la parola per smorzare lo scontro. Dopo un’ulteriore frecciata una collega scoppia a piangere, dicendo di non sentirsi ascoltata e riconosciuta, si alza e lascia la riunione. Nel tentativo di difenderla cerco di riportare l’attenzione sul nostro ascolto, e qualcuno mi asseconda, ma SF afferma che il focus dell’incontro era un altro e chiede di chiudere la riunione.

Desidererei provare a portare una nuova cultura nell’organizzazione, dell’ascolto profondo delle difficoltà e del coinvolgimento nel prendere le decisioni, scardinando modalità verticistiche. Ma sento che le resistenze sono enormi. I tentativi di piccoli passi sono aggrediti violentemente e zittiti, e sono pochi i colleghi che sembrano voler prendere questa strada.

Simone, 23 mag. 2024

 

Caso didatticamente esemplare. I passi che segue SF sono abbastanza prevedibili, fermandosi solo sul compito e solo su un’apparente positività. È una consuetudine. Quello che ti suggerisco è su due piani: 1) i cambiamenti sono molto graduali; 2) cerca di mettere un piglio di assertività tua.

Le persone tutte pragmatiche non sanno destreggiarsi nelle emozioni, pensano che siano cose non loro, le emozioni sono un disturbo, non sono lavoro, il lavoro è razionalità, compiti, positività. Errore!

Sui piccoli cambiamenti: potresti provare col proporre i tempi di una condivisione, “facciamo quindici minuti di ascolto, dopodiché ci rituffiamo nel lavoro”. E poi motivare con parole semplici: “se ci scambiamo anche il disagio riferito alle dimissioni del collega, possiamo calmarci e con la calma il lavoro stesso viene meglio”.

Sul piglio di assertività: coi colleghi scettici puoi agire dicendo bene la tua (mi esprimo, spiego che sentimento provo) e poi ascoltarli, vedendo cosa emerge nell’insieme. In ultima, la negoziazione, nelle prossime riunioni cerca sia con SF che coi colleghi di stringere almeno un punto di accordo minimale, ma concreto, che vada nella direzione che giustamente qui hai illustrato.

 

Pino De Sario, 23 mag. 2024


Domanda-105 (23 aprile 2024)

Il mio caso è: Conflitto gerarchico di tre persone in linea gerarchica discendente. Il problema è visto da chi occupa la posizione intermedia. Un sottoposto non riconosce l’autorevolezza e l’autorità della persona che occupa la posizione intermedia e mette in atto azioni collaterali coinvolgendo soggetti direttamente collegati (partner), alterando, addomesticando il processo decisionale. La persona a livello apicale ha un comportamento ambiguo e non posizionato.

Il livello di negatività è alto. La modalità di lavoro per ora è stata “giocare il problema”. Sono stati esplicitati in questo modo i comportamenti di “manipolazione”. Ora però non è più sufficiente.

La tua proposta in aula è stata:

– Quesiti pertinenti e assertivi che diano risposte del tipo Si o No; – Ricondurre al compito; – Prendere tempo quando mi irrigidisco; – Valutare quanto partecipa la persona; – Agire una mia “protezione buona”

Piera, 24 apr. 2024

 

1) Quesiti pertinenti e assertivi che diano risposte del tipo Si e No – La mossa va attivata quando ci sono persone agitate, debordanti, disregolate. Dare loro un po’ di spazio ma al contempo contenerle, delimitando a loro lo spazio.

2) Ricondurre al compito – Stare molto sugli aspetti tecnici, visto che la relazione è fortemente insidiata e manifesta non poche minacce.

3) Prendere tempo quando mi irrigidisco – In negatività alta, questo è il caso, l’accesso al congedo deve essere eventualità molto prossima, visto che il rischio di peggioramento è alto.

4) Valutare quanto partecipa la persona – Tentare con i feedback, quale verifica sia di contenuto (piano del compito), ma anche di quanto la persona stia rientrando in un piano dialettico e dialogico, seppur minimo (piano della relazione).

5) Agire con protezione buona – Già nel punto 3.

Pino De Sario, 24 apr. 2024


Domanda-104 (20 dicembre 2023)

Ci stavamo chiedendo cosa fare rispetto al momento del circle-time qui nel nostro ufficio: coinvolgere i volontari previa una preparazione di massima?

Betta e Pina, 13 dic. 2023

 

Se siete semplici e accogliete con garbo i due volontari, la mia risposta è sì, coinvolgeteli, senza troppi preamboli. Il punto è la vostra semplicità, genuinità. E rispetta-spingi: se dovessero dire “non mi viene nulla da dire”, la facilitatrice rispetta “bene”, e spinge “proseguiamo” con la parola nel cerchio di chi deve dire.

 

Oppure non caricarli di questo momento particolarmente “personale”?

Non è caricare, ma sollevare.

 

Può avere senso inserirli ora a gruppo avviato?

Stesso discorso di sopra, più un gruppo è vario e più è bello. Perché ci sono dei “salti” mentali, differenze, particolarità.

 

Pino De Sario, 20 dic. 2023

 


Domanda-103 (14 ottobre 2023)

Vi scrivo per chiedere un parere su un mio intervento formativo, mi occupo di formazione finanziaria. Nel gruppo ho aperto sulle emozioni, sui colori e lo stato d’animo con cui i partecipanti venivano all’incontro, cercando di soffermarci con tatto sui motivi che li facevano nascere. Poi ho diviso i partecipanti in due gruppi che dovevano confrontarsi su un tema socialmente divisivo.
Il punto principale dell’attività era quello di assumere la posizione opposta a quella che avrebbero avuto nella realtà, chi era pro al tema doveva sostenere le tesi contro e viceversa. L’ho pensata per portare i partecipanti a indossare i panni di chi solitamente si trovano contro.
L’attività ha generato uno scompiglio iniziale perché richiedeva di riuscire a mettere da parte solidi aspetti valoriali individuali. Ma i feedback sono stati grandiosi!
Ovviamente non ha portato ad illuminazioni sul contenuto, ma ha portato il gruppo a confrontarsi in un dialogo aperto, senza giudizi o animi che si scaldavano. Mi è proprio stato detto che concentrarsi anche sul “come” e non solo sul “cosa”, ha permesso di raffreddare le emozioni favorendo un dialogo senza pregiudizi. L’attenzione era quindi più sul processo che sul contenuto e sul risultato dello scambio.
La mia riflessione è andata subito ai Tre cervelli e a come le attività portassero a toccarli un po’ tutti e tre. Che ne pensi??

 

Simone Gentili, 13 ott. 2023

 

Simone, ciao, ho letto le tue note, apprezzamenti! Mi sembra tutto buono, ottima l’idea dell’inversione dei ruoli, del mettersi in posizione opposta a quella ordinaria. Aggiungo solo una cosa, ricorda solo di creare clima, umanizzazione, genuinità tua, elemento chiave per poi dinamizzare il gruppo, esporlo allo stress che gli hai dato, di mettersi nei panni dell’altro. Questo salto di immedesimazione va preparato, almeno un po’, non va fatto a freddo, ma a caldo, accompagnato.
Creando ambiente e clima, scongelando, connettendo, accettando le cose che emergono, poi puoi operare anche “scatti” di modalità, mettere scosse, tutti elementi che “caricano il cervello”, aumentano curiosità, attenzione, voglia di dire la propria.

 

Pino De Sario, 16  ott. 2023


Domanda-102 (1 luglio 2022)

Come membro della mia associazione siamo all’avvio di un’impresa di sartoria con delle donne Rom, molto dirette nei modi. Nella definizione dell’impresa è sorto un conflitto tra due di loro, sulle attività che avrebbero svolto, cosa che ha gettato nello spegnimento le altre lì presenti. Il mio capo tendeva a parteggiare per una. Sono intervenuto chiedendo all’altra partecipante di spiegare meglio la sua posizione, che fino a quel momento non era riuscita a esprimere. Ho cercato di darle calore e attenzione perché la vedevo messa nell’angolo. A posteriori, pensandoci, avrei voluto coinvolgere di più anche le altre donne, scongelandole e facendo girare la parola, ma non sono riuscito a essere sufficientemente assertivo col mio capo, che dettava la linea. Un tuo parere?

Simone Gentili, 26 giu. 2022

 

Simone, ciao, per me ti sei mosso bene. La prossima volta puoi coinvolgere anche le altre presenti, perché prendi tempo tu… e il mondo essendo generoso, ti viene in soccorso certamente facendo emergere spunti delle altre, puoi tenerlo a mente. Coi capi un passo per volta, è normale che provi soggezione. Complessivamente, datti apprezzamenti!

Pino De Sario, 1 lug. 2022

 

In un’altra situazione ho gestito interamente da solo, sia come docente che come tutor. Sono riuscito così a prepararmela, ad aprire con la doppia cornice e a fare un inizio di giro di parola sul come si arrivava a quella riunione. Ho anche preso spunto dalla nostra Summer appena svolta in cui dicevi di non preparare troppo la scaletta ma di buttare giù solo una traccia, per non essere troppo rigido. Infatti poi mi sono perso la scaletta e ho improvvisato (anche in modo un po’ confuso). Sono molto contento però che si sia creato un clima informale e di apertura, tanto che c’è stata molta partecipazione e coinvolgimento (anche i questionari di valutazione sono andati bene). L’aspetto negativo è che ho avuto un po’ di ansia nei momenti di vuoto/silenzio (cosa che spesso mi capita) e ho corso arrivando a chiudere con venti minuti di anticipo.

SG

 

Bene anche qui. Stai facendo grandi passi in avanti! Apprezzo. Mira sull’ansia da mancata risposta del gruppo e prova a starci, ad ascoltarti, a non scappare. Ci sarà imbarazzo, ma anche senso, attenzione, genuinità, dati dal fatto che non hai tirato dritto, un po’ come si fa in questa nostra epoca, in cui bisogna essere spesso veloci, performanti, scaltri. No, invece possiamo indugiare, rallentare, prendere tempo, non alimentare il solito pilota automatico. Esercizio anche qui per la prossima volta.

Per inciso, i silenzi dei gruppi alimentano ansia, succede così anche a me. Dieci giorni fa però un gruppo mi ha detto: “Il nostro silenzio di stamattina è di riflessione, non di mancanza”. Molto bello, bello per la mia crescita. Non trovi?

PDS


Domanda-101 (9 giugno 2021)

Ma il facilitatore ammette le sue difficoltà in un gruppo?

Mi trovo in Lombardia presso un’azienda sanitaria dove mi chiamano per facilitare un conflitto tra operatori prima collaborativi e poi via via in verticale deterioramento. Nell’équipe non di rado emergono anche toni molto duri e punitivi, che vanno a toccare la sfera personale. Volano gli stracci e si sentono rumori di spade. Incontro l’intera équipe che lavora presso un Serd.
Questo stato di crollo (spegnimento secondo i tre comportamenti automatici) è davvero il più difficile, perché le persone quando vi entrano diventano impassibili, veri e propri muri di gomma. Riflettendo sulla mia facilitazione, posso dire questo: mi sono impegnato molto, pensavo di farcela ad aiutare le parti e l’intero gruppo, anzi ero convinto di farcela! Proprio questo fattore mi ha fatto forse insistere troppo sulle idee di metodo e non profondere abbastanza il senso, l’emozione, la vicinanza umana. È stato come se i miei assiomi in quel momento agissero da garanzia della riuscita, cosa puntualmente smentita.

Pino De Sario, 25 mar. 2021

 

Ciao Pino, ho appena letto la scheda sulla tua facilitazione presso l’azienda sanitaria lombarda. Trovo davvero molto utile leggere questo esempio e sono colpita dalla tua capacità di rielaborare in maniera strutturata, tanto da renderla apprendimento, una situazione che, immagino, sarà stata dolorosa anche per te. 
Come allieva trovo di grande spunto la tua riflessione sul fatto che il facilitatore in certi contesti debba uscire fuori dal ruolo di esperto ed agire quella “umanità buona” di cui parli. Questo di sicuro è molto complesso e sottile perché richiede l’allenamento non di tecniche, ma di doti umane. Difficile fare questo passaggio nei contesti lavorativi caratterizzati da performance e, immagino, ancora più difficile quando si è chiamati nelle vesti di “esperto”. Ma questa è davvero una bella lezione da cui, come scrivi, può emergere un momento di riflessione teorica.
A volte mi capita di riscontrare su me stessa quanto debba tenere alta la guardia nel praticare la mia buona umanità. Ovvero, trovandomi spesso a lavorare in contesti impersonali e un po’ abbrutiti, vedo come rischi di assumere io stessa questa postura e questo stile nel mio lavoro. Devo agire davvero un lavoro “consapevole” per non farmi trascinare in questo vortice abbrutente. Queste mie note ti suscitano altra riflessione?

Emilia Pellegrini, 27 mag. 2021

 

Emilia, ciao, alla tua bella lettera mi sento di aggiungere questi due punti: 1) aiutare i gruppi è un compito molto complesso, a tratti complicatissimo, che non ci desume tuttavia dal provare e allenare le nuove capacità cardinali (scientifiche, metodologiche, umane); 2) quel caso è avvenuto quattro anni fa, posso dire che il lavoro svolto da lì ad ora, su di me e anche nella nostra Scuola, ha teso a rinforzare il piano personale-umano. Sono approdato così alle diverse forme di “calore sociale”, un’area che tratteggia le tinte di un’umile ricerca, di una tenue compassione, della tenerezza umana. In queste forme trova spazio anche l’ammissione come facilitatore di mie possibilissime impasse o difficoltà. Da lì Jerome mi diceva… “poi è tutta un’avventura”.

P.D.S, 9 giu. 2021


Le 100 Domande (marzo 2021)

Cos’è facilitazione e facilitatore?

1. Cos’è facilitazione?
La facilitazione è una capacità sociotecnica che può agire chiunque, per unire le persone nei gruppi di lavoro, per gestire le dinamiche ambivalenti interne, per introdurre un maggiore senso collettivo e di partecipazione. Una capacità da inserirsi nelle organizzazioni di tutti i contesti, nelle relazioni professionali faccia-a-faccia, nei casi di conflitti e negatività, nei casi di complessità e di reti interassociative.

2. A cosa serve la facilitazione?
A creare un buon clima di lavoro, un piano di interazione efficace, un modo di condurre problemi e attriti in direzione costruttiva, a fare esercizio di “relianza”, relazione e alleanza, come dice Edgar Morin, ad aumentare il pensiero complesso e la cultura delle relazioni come ci insegna Fritjof Capra. Ma anche saper collegare una moltitudine di punti di vista soggettivi sul mondo e su un oggetto, come afferma il matematico Grothendieck, che definisce “stato di verità” quella situazione in cui si mobilitano le attitudini ricettive e di ascolto, che fanno evolvere le singolarità parziali verso punti di vista più ricchi, più rotondi, come è di fatto una mente detta “grandangolare”.

3. E in quali contesti si può applicare?
In tutti. Abbiamo svolto facilitazioni dal carcere all’azienda, dagli asili agli infermieri, alle polizie e alle forze armate, con gruppi per la pace, del non profit, le cooperative, lo sport, la scuola. Sempre lavorando con adulti.

4. Perché si parla di “facilitazione esperta”?
Perché è un metodo costruito per il lavoro in gruppo, da esercitare in situazioni complesse e ambivalenti, dove non basta fare discorsi intellettuali o appelli lineari “dobbiamo collaborare”. In ogni gruppo i propositi coscienti sono solo una parte minoritaria delle attività lavorative e comunicative, che presentano una gran massa di processi cerebrali veloci e automatici, accompagnati da poca o nessuna consapevolezza. Un facilitatore fa attenzione alle parole che pronuncia nel gruppo, cosa dice e cosa fa, ma al contempo, si centra anche su “come sta assieme al gruppo” (essere-con), specialmente durante momenti stressanti sul piano emotivo, quando la situazione tende a declinare e peggiorare. Tutto ciò connota una nuova capacità esperta.

5. Chi è il facilitatore?
È un agente di cambiamento. Un moderatore, una persona che sa come calmare l’agitazione tipica di noi umani (artenuare). Secondo il mio modello è poi un catalizzatore, un mediatore, un agente di aiuto, un motivatore. Il facilitatore sa che molti agiti sono mossi da una forte presenza della paura, che egli prova a trasformare in direzione di sensibilità, fiducia, unione. Il facilitatore assume un ruolo privilegiato di “terzietà”, di persona non implicata, che gli offre una capacità di osservazione nitida. È molto difficile rimanere un osservatore quando sei un partecipante. Morale, il partecipante vede di un problema uno specchietto parziale e autoriflesso, mentre il facilitatore ne intercetta aspetti lucidi aperti, proprio per il suo non invischiamento.

6. Qual è il compito principale del facilitatore?
Far parlare le persone, tutte, e specificare le azioni in forma corale, di team. Ma anche ha il compito di snellire, agevolare, rendere fruibili funzioni e operazioni complesse. La facilitazione si occupa anche di far crescere l’energia umana, esaltando la produttività al tramonto di vecchi modelli paternalistici o stakanovisti che ci spremono fino a esaurirci. È più bello e appagante lavorare cooperando con gli altri, produce visioni e creatività, ammorbidisce le nostre personalità, coltivando più emozioni costruttive e gentili.

7. Di cosa si occupa il facilitatore?
Del piano della parola e delle idee, del piano del fare e delle azioni, senza sottovalutare il piano controverso e ambivalente delle nostre emozioni. Si occupa delle persone senza dimenticare degli obiettivi del gruppo e, viceversa, si occupa degli obiettivi senza dimenticare le persone.

8. Quali obiettivi ha la facilitazione?
Unire, gestire, senso collettivo. Ma anche, risvegliare il sonno di una grande fetta di adulti, mettere “calore sociale” nelle situazioni, il “veicolo” essenziale per crescere.

9. Chi può praticare la facilitazione?
Nel senso di “esperta” la praticano soltanto persone debitamente formate, dopo training apposito di 180 ore più richiami. Il nostro MasterFace laurea le persone come “facilitatori esperti”.

10. Un sinonimo di facilitatore è?
Un consulente che rende più semplici manovre complesse, tra cui: negoziazione, convivenza, apprendimento, innovazione, benessere, crescita, adultità, empowerment, ottimalità, respiro, resilienza, ingaggio sociale, organizzazione, nudge (spinta gentile), inclusione, diversità, emozioni come motore generativo, dinamismo, flow (flusso e presenza ottimale), risultato.

 

Lunga vita al facilitatore

11. Come nasce la facilitazione? In quale ambito o pensiero trova le sue radici?
Prima Rogers in ambito di psicologia, poi Knowles nella formazione degli adulti, poi gli urbanisti inglesi, poi il management comportamentale (Schein, Thaler), poi parti della neurobiologia (Cozolino, Siegel), tutte spinte convergenti per coagulare i tanti interessi scomposti di una società complessa e moderna e approdare alle mille forme di democrazia deliberativa e al lavoro di gruppo.

12. Quali competenze deve mettere in campo un facilitatore in un gruppo?
Tante, le primarie sono: a) mettere in collegamento compito e persone; b) coinvolgere con la parola; c) trasformare le negatività che sono tante; d) attivare verso buoni risultati.

13. Quale metafora meglio racconta il lavoro del facilitatore?
Il ponte. Il ponte che mette in collegamento due sponde. Che resteranno sempre distinte e anche necessarie, altrimenti il fiume esonderebbe subito, o no? Collegare quindi, due entità distinte tramite un contatto, forte o occasionale che sia. Da qui, la frase del 2017, “unire ben sapendo delle forze che dividono.” Integrare sapendo distinguere. Questo è il quid dell’aggettivo “esperta”: una capacità che governi l’ambivalenza tra unire-dividere, integrare-distinguere.

14. Quali differenze ci sono tra facilitatore, mediatore e coach?
Il facilitatore nasce per il gruppo e le sue parti produttive ed emotive, per la gestione dei conflitti ma anche per lo sviluppo della conoscenza. Il mediatore è specifico alla trasformazione del conflitto. Il coach nasce con valenza one-to-one ed è specifico alle skills di carriera e per le figure di vertice.

15. Quella del facilitatore è una professionalità riconosciuta? Ci si campa?
Sul piano normativo non è riconosciuto. Poi in alcuni ambiti, vedi Fao e Ue a Bruxelles, esiste la figura che opera al loro interno. Non si campa solo di facilitazioni, ma questa competenza deve accompagnarsi ad altre, come il formatore, consulente o altre.

16. Che percorso deve fare una persona per diventare facilitatore?
Seguire una formazione organizzata da alcune Scuole, una tra le primarie è la nostra Scuola Facilitatori. Meglio se come base si ha un diploma di laurea in materie umanistiche, in economia, in giurisprudenza. Ma tutti possono accedere.

17. Quali discipline di studio possono far parte del bagaglio culturale del facilitatore?
La didattica che abbiamo progettato negli anni ha quattro vertici: a) principi di management; b) basi di psicologia; d) elementi di neurobiologia; d) elementi di pedagogia.

18. Bisogna necessariamente frequentare un corso di formazione? Oppure è sufficiente essere psicologi o persone empatiche con la disponibilità ad ascoltare gli altri?
Sì, serve seguire corsi ad hoc. Non basta la competenza disciplinare singola. La facilitazione è transdisciplinare, ovvero, è la connessione-sintesi di saperi diversi; esempio per gestire le emozioni non basta la psicologia e neanche la neurobiologia, serve un intreccio tra le due. E non basta neanche.

19. Cosa si intende quando si definisce un facilitatore come “leader di processo”?
Per processo si intende il modo in cui si compie un’azione, i passaggi progressivi di un progetto, le componenti dinamiche che si muovono contestualmente ai contenuti. Il termine indica di quel dirigente che sa mettere attenzione anche a persone e metodi, non solo a risultati e obiettivi.

20. Esiste “una” facilitazione sola, oppure ci sono tanti stili e pratiche diverse e come si alimentano a vicenda (ost, woca, town meeting, consensus)?
Esistono molti tipi ed è molto bello tutto ciò. Ne distinguiamo tuttavia due forme: una psicosociale, come il mio “face-model”, che intercetta il comportamento, lo accoglie per dargli una direzione di sviluppo; un’altra tecnicistica, che non entra nel comportamento, ma che cerca di dargli indirizzi tramite buone tecnologie e kit organizzativi. L’approccio della Scuola è molto adatto per i piccoli gruppi, l’altra è congeniale per consultazioni pubbliche.

 

 

Il “face-model” ce lo spieghi meglio?

21. È stato elaborato dalla vostra Scuola un modello di facilitazione “face-model”. Di cosa si tratta?
Nella seconda parte degli anni Novanta, cercavamo uno strumento per le aziende, che rispondesse a due criteri: la sintesi, l’applicazione. C’era bisogno di metodi più semplificati da offrire, ma anche più realistici, non è vero che ce la caviamo con un po’ di empatia e assertività: queste non bastano e non funzionano da sole.

22. È un metodo rigido o reinterpretabile a seconda dei contesti o a seconda di chi lo applica?
Prendiamo le “4F”, le capacità chiave, a mio avviso vanno utilizzate in sequenza, funzionano molto bene. Ma in alcuni casi serve dilatarne una, usandola “a tasto”: esempio, per un ambiente nel panico serve di più la F3, un ambiente disorganizzato va bene F1, in un ente dove domina il pettegolezzo può aiutare F2, per un ambiente spento F4.

23. Le funzioni del face-model ci indicano delle attività da gestire, esiste una gerarchia tra queste attività?
Confermiamo che esiste una sequenza, non una gerarchia, tutte le “4F” sono importanti. E come mi rimandano i miei allievi le “4F” sono interconnesse e collegate, una richiama l’altra e una è dentro l’altra. Interessante!

 

 

Quando è da chiamare un facilitatore esterno?

24. Perché dovrei pagare un facilitatore per fare quello che dovremmo essere capaci di fare noi da soli?
Buona domanda. Sulla carta dovremmo essere capaci ma poi è rarissimo riscontrarlo nei fatti, sono pochi i gruppi efficaci. I soggetti quando sono dentro la dinamica non possono vedere il panorama che vedrebbero se fossero fuori. Chi partecipa non osserva, è troppo preso a partecipare. Il facilitatore ha quindi uno sguardo privilegiato, oltre a far leva su tecniche aggregative di prima scelta. Un soggetto terzo fa meglio e fa prima quello che un capo o un gruppo in tanti anni non riescono a fare.

25. Le persone come capiscono che hanno bisogno di un facilitatore?
Per il tasso di logoramento e negatività, fisiologici, che rasenta a turno ogni situazione. La fragilità delle persone non è un difetto di alcuni, ma la nostra condizione congiunta di umani. Le norme e i regolamenti stessi, hanno impatti obliqui, una forma di “moralità organizzativa”, un sistema che poggia su un antico strato di comportamento animale privo di moralità, come una patina di vernice che dipinge una cassa di legno: non a caso l’etologo de Waal la chiama “teoria della patina”. Infine, un facilitatore porta nel gruppo anche qualità, coinvolgimento, maieutica, benessere, che sa come propagare.

26. Se ho bisogno di un facilitatore significa che il mio gruppo di lavoro non funziona?
Sì certo! Ma non solo, anche in gruppi che funzionano, ma tendono ad escludere, ad abilitare alcuni e ad asservire i tanti; altri in cui si funziona ma si è tristi, rigidi, poco aperti alle novità. È così facile creare discriminazioni, aumentare differenze, sottoutilizzare il capitale umano a disposizione.

27. Il facilitatore/la facilitatrice mi consiglia anche cosa fare?
Il facilitatore in azienda è un “consulente umile”, che non arriva col raccoglitore preconfezionato di ricette, sempre quelle. Non è un medico. Si offre come agente dinamico, che cerca di incrociare le preoccupazioni più profonde in testa ai capi e subito dopo allestisce palestre di scambio dialettico e dialogico, autentico con i ruoli operativi e i reparti. A quel punto molte idee nascono nelle teste di tutti, facilitatore compreso.

28. Cosa è necessario al facilitatore per svolgere bene il suo ruolo?
Uno, un mandato semplice e netto da parte del committente. Due, un’interfaccia con persona o ufficio con cui costruire un primo ponte fiduciario. Tre, un sufficiente grado di libertà e alleanza sui tentativi che dovrà effettuare.

29. La facilitazione può ritenersi un antidoto o un semplice palliativo nelle situazioni in cui prevale la negatività?
Ecco, in mezzo a tante storture la facilitazione è sollievo, pausa, reindirizzo, cambiamento, rispetto delle resistenze, è un buon campo di attenzioni. Certo che può essere anche palliativo, ma in via residuale. La negatività è una dei suoi centri principali di attenzione.

30. Ma perché siamo circondati da così tanta negatività nei gruppi e nelle aziende?
I fattori sono molteplici e a strati: dal lavoro che è fatica e sforzo con effetti problematici già di suo alla convivenza con persone non scelte; dall’ambiente gerarchico che crea divisioni e solitudini all’incertezza dei mercati; poi ci sono le emozioni che vanno in circolo senza capacità di cura; non ultima l’inclinazione alle negatività di noi umani, che ci spinge a vedere “nero” per prevenire il nero, un vano tentativo per evitarlo.

31. A cosa deve prestare attenzione un facilitatore?
A una miriade di fattori, è una domanda molto vasta. Proviamo a dire così: egli prova a stare attento a come si sente (self), è vigile rispetto a chi ha davanti (persone, gruppi, capi), tiene presente la situazione nel suo complesso. L’attenzione è quindi rivolta all’insieme, che qui schematicamente ha tre direzioni, sé, sé-altro, contesto. Questo lo chiamiamo “facìlstato”, tre piani da curare, per calibrare il caldo e il freddo, proprio come si fa con un termostato.

32. In quale rapporto può essere con le parti il facilitatore?
Il suo impegno è creare dialettiche e anche umanizzazione, circolarità e profondità. Il rapporto è anche qui duale, si impegna ad avvicinare questioni e persone, ma al tempo stesso a distanziarsi per non perdere il suo sguardo deputato di osservatore e calibratore.

33. Come gestisce il facilitatore le chiusure che emergono nel gruppo a causa della partecipazione al tavolo del superiore gerarchico?
Il superiore presente incute timori nel facilitatore, indubbiamente. Dall’altra, conviene considerarsi ospiti a tempo, il capo è il padrone di casa. In questo quadro è bene muovere la consulenza dando corpo alla “terzietà”, per far girare le ragioni diverse, aiutare, cercare profondità di ragionamento, accogliere le opposizioni (che caricano bene le menti), non atteggiarsi a salvatore della patria.

34. Quali attenzioni deve avere nei confronti del cliente/committente?
Quella di immedesimarsi su uno sguardo di insieme, il tipo di azienda, la forma organizzativa, il prodotto. Poi cercare il collegamento più esplorativo e fiduciario con il direttore per rintracciare le preoccupazioni più nascoste, che sono quelle che fanno nascere le dinamiche.

35. Come si misura l’efficacia di un intervento di facilitazione?
Non esiste uno strumento di valutazione unico e assoluto. Potrei dire un questionario di fine intervento. Un giro di feedback a fine riunione facilitata. Un consulto sul clima alimentato negli incontri. L’evoluzione migliorativa dei problemi nell’analisi della domanda di ingresso. In alcuni casi è fattibile estrarre degli indicatori e provare a misurarli in un dato tempo (es. durata delle riunioni, puntualità delle persone, numero di conflitti, uso delle mail, ecc.).

36. Se non ho problemi in azienda, perché devo chiamare un facilitatore?
Con pochi problemi non va chiamato un facilitatore. Si risparmia denaro. Ma aggiungiamo, una facilitazione non è meramente gestione di negatività, ma anche aumento dei potenziali interni, sviluppo di un clima accogliente di ascolto e un “regista di interazione” a tempo non può che risultare prezioso per la ventata di capacità buone che può portare.

37. Quanto è importante che il facilitatore conosca nel dettaglio i contenuti di un dato gruppo? Quanto devono essere approfonditi i temi della situazione prima di iniziare la facilitazione?
Il facilitatore ha già una cassetta complessa che porta con sé. Non deve appesantirsi di molte altre conoscenze, che lo inquadrerebbero troppo sul piano del merito. Egli invece presidia il piano del metodo. Per cui, è bene che si informi, che raccolga elementi tecnici, nel formato quanto basta (qb).

38. Come si passa dalla fase dell’accoglienza delle parti al lavoro concreto sulle criticità? Si menziona l’incarico ricevuto, si fanno domande per far emergere le problematiche?
Consideriamo i tempi stretti di intervento, che cercheremo di mettere a frutto più possibile. Per cui meno retoriche e più giri di parola sostanziali, diretti, che provino già nelle prime battute a far emergere, a sostanziare. L’incarico va annunciato brevemente, insieme agli obiettivi dell’intervento e al ruolo di mezzo che si rivestirà, ma senza ritualismi e complicanze, con semplicità.

39. Come fa il facilitatore a mantenere una soglia di neutralità?
Un po’ ce l’ha nella sua stessa costituzione. La neutralità poi la foraggia col far girare la parola, ponendosi mentalmente mediano tra le parti, sospendendo i suoi valori personali e le sue proiezioni, coltivando una “mente del principiante”, quel senso di spontaneità, freschezza e affetto per i gruppi e le persone.

40. La gestione delle negatività necessita di tempo, ma nelle organizzazioni c’è sempre meno tempo, io ho bisogno di più tempo, cosa dici tu a riguardo?
È vero. Rispondiamo in modo pragmatico e andiamo dritti a uno strumento: la “parola chiave”, che offre diverse opportunità al facilitatore. Estrae i fatti dalle opinioni; mette in collegamento cervello emotivo e cervello razionale; dà segni forti di ascolto e comprensione; intercetta una rosa di condotte, dalle più tiepide e alle più infuocate.

Un capo, un coordinatore, facilitatori dall’interno. Funziona?

41. In quali professioni la facilitazione può fornire un upgrade?
In quelle di coordinamento, dei responsabili di funzione (qualità, sicurezza, Csr, relazioni col pubblico); i leader di progetto, prodotto, di équipe; alcune professioni, tra cui comunicatori, progettisti, urbanisti, avvocati, architetti. Chi conduce decine di riunioni a settimana, chi ha relazioni a 360 gradi.

42. Posso essere facilitatore nel mio gruppo di lavoro?
Sì, certo! Con un’accortezza, la chiamiamo “cambio di cappello”, cioè annunciare il cambio di modo, per poter passare da leader di contenuto a leader di relazione, annunciandolo ai collaboratori. Un facilitatore non prende posizione ma agevola le parti. Un capo prende posizione, determina, conclude.

43. Di quali strumenti ho bisogno come facilitatore interno per essere efficace?
Un capo, un primario, un urbanista che conduce un team di tecnici, tre gli strumenti: il primo è il doppio pedale apprezzamento e critica costruttiva (valorizzare-inibire); il secondo, il cambio turno con la parola circolare; il terzo, la gestione della negatività, prima comprendere e dopo agire.

44. La leadership facilitatrice alterna leva direttiva e partecipativa, ovvero?
Partire da un concetto basico, per cui ogni gruppo ha un doppio piano, produzione e partecipazione, razionalità e automatismi quasi tribali. Per produrre il capo presidia la direttività, per coinvolgere può spostarsi su quella partecipativa. Occorre che adotti uno spettro ampio di leadership, che richiede più sforzo, ma che gli fornisce più completezza; alternerà decisioni al singolare (“ho deciso!”) con consultazioni in stile plurale (“cosa proponete?”).

45. Quando si ravvisi la necessità di facilitare, come si può assumere il ruolo, nei casi in cui non c’è un mandato espresso. Come farsi accettare e affrontare le diffidenze?
In questo caso crediamo che molto si giochi sull’atteggiamento, sull’aria che emana il facilitatore. Sul modo con cui si presenta, si mette nel gioco del gruppo. Da principianti eravamo inevitabilmente contratti, rigidi, ingessati. Le diffidenze poi, possiamo metterle nel conto, è molto giusto che ci siano, sono un sintomo di intelligenza e realismo.

46. Ci si può proporre facilitatori in una riunione, in un gruppo e agevolare la comunicazione su un problema che riguarda tutti?
Nei nostri libri l’abbiamo chiamato “facilitatore in time”, quando un membro alla pari si offre per facilitare o anche per mediare un conflitto. Lo troviamo un atto di generosità e altruismo. Va fatto!

47. Perché la facilitazione deve essere un investimento per le nostre aziende?
Per molti aspetti, ne evidenziamo solo un paio: a) perché incarna una capacità orizzontale, dialogica, delle connessioni tra reparti, settori, egocentrismi, orticelli, ahimè molto diffusi; b) perché bonifica le situazioni, i team, le riunioni, aiuta le compagini a trovare contenuti e metodo per passare dal negativo al positivo, dall’egocentrismo al collettivo.

48. Un sindaco, un dirigente, un comandante di Polizia locale, i ruoli operativi, possono attivare positività se non hanno acquisito metodo e quindi competenze nella facilitazione?
Possono di certo. Negli anni abbiamo trovato persone senza una formazione, che liberavano capacità di alto livello nel dialogo, nell’ascolto, nella mediazione. Tuttavia, crediamo che queste positività possano accadere in modo occasionale, a singhiozzo. Siamo abbastanza convinti infatti, che solo con metodo si apra la porta di comportamenti graduali e continui. Ma seppur con metodo, va anche detto, che tutti siamo poi ondivaghi, lunatici, ambivalenti. Figuriamoci senza metodo.

 

 

Il facilitatore è un marziano? È un monaco?

49. Come si prepara e si allena un facilitatore?
Preparazione: tendiamo a costruire scalette e moniti sul quaderno, partiamo sempre dalle parole chiave del committente, dal suo linguaggio e dalle sue aspettative e le incrociamo con un progetto della giornata che costruiamo su due piani: una scaletta di contenuto (Sca) e una breve lista di metodi di animazione (Met). Allenamento: studiare, fare cose piacevoli in genere, respirare, meditare, curare il proprio negativo; infine ridere di sé, nella propria sede, non fregarsene di quello che possono pensare amici e familiari.

50. Quali sono le trappole in cui può cadere anche un facilitatore esperto?
Sono tantissime: apprezza e viene preso per troppo docile, gestisce i tempi e viene preso per uno stressato, evoca il collettivo e viene preso per uno socializzatore fatuo. Detto ciò, avere troppa certezza sulle proprie capacità, del senso di umanità e dell’ampia cassetta degli attrezzi che sappiamo di avere, che unite alla “sindrome del salvatore”, ci possono far cadere nell’ennesima trappola.

51. Con il termine facilitazione si pensa a facilitare gli altri, ma quali strumenti della Scuola aiutano gli allievi e futuri facilitatori a facilitare sé stessi?
Negli ultimi due anni le abbiamo chiamate “forme vitali”, pratiche salutari per la cura di sé, tra cui gratitudine, respirare, muoversi, condividere e altre ancora. La Scuola nel suo programma didattico accompagna gli allievi a prendere contatto con le proprie negatività, dentro il programma “curo il mio negativo”, oltre a spingerli a far fiorire loro qualità e talenti.

52. In quanti ambiti può agire un facilitatore?
In tutti gli ambiti. Il problema è che è una figura poco conosciuta e che per di più incontra indubbie resistenze. Non sempre le aziende vogliono davvero cambiare e migliorare.

53. Un facilitatore può cambiare la vita delle persone con cui interagisce? E può farlo?
La vita ci cambia per incontri occasionali avvenuti, libri, docenti, fidanzati e fidanzate, un viaggio. Non troviamo nulla in contrario che una figura buona possa dare impulso a lampadine spente che si accendono. È solo un’eventualità positiva, poi prodotta con senso laico, semplice, rispettoso, non istrionico. Ci fossero più occasioni per cambiare, crescere!

54. C’è un’età più adatta per fare il facilitatore?
Dipende dalla persona, dal suo grado di maturazione e realismo. Non c’è quindi un’età preferenziale, la forbice è aperta, da 21 anni a 70 anni e oltre.

55. Saper facilitare è una competenza o è una maniacale implementazione di tecniche?
Il facilitatore non è un marziano. Fa leva sulla sua competenza, certo! Ma come escludere la componente inconscia che vive in tutti noi, che assurge quindi a riflessi poco consapevoli. Facilitare è un avamposto del voler bene, dell’estendere sentimenti amorevoli agli sconosciuti. Nell’impermanenza di questi sentimenti, che però proviamo ad allenare e alimentare con costanza.

Una nuova scienza, una nuova arte?

56. Quali sono le principali teorie sulle quali si fonda la facilitazione?
Abbiamo tre grandi riferimenti: a) la psicologia con la dinamica di gruppo, Lewin e Liss i riferimenti; b) la neurobiologia col cervello tripartito e i tre comportamenti automatici, con gli studi di MacLean, Siegel e Porges; c) il management, con la consulenza di processo di Schein e Weick. A seguire anche molte altre.

57. Perché il peggio della natura umana affascina tanto?
È chiamata “inclinazione alla negatività”, più che affascinare ci risucchia, ci attrae automaticamente. Per quello che abbiamo capito, interviene in noi un riflesso automatico, in cui diventiamo ipervigili su rischi e insidie (il “bastone”), che ci possono accoppare, e poi a livello innato abbiamo l’agitazione naturale che agisce nella testa, la nostra beneamata amigdala, una centralina sempre critica, paurosa, complottista. In sintesi, la negatività ci affascina perché la temiamo.

58. Se facilitare è dare del tu alla pluralità, cos’è ostacolare? Dare del lei agli individui?
Facilitare = pluralità, multifattorialità, diversità, insiemi. Ostacolare? La metterei così, con due dimensioni: se occasionale, gli accorderei il benestare di fisiologico e anche giusto, ostacolare è anche sano; se diviene sistematico, allora dalla fisiologia si passa alla “patologia”. Qui il facilitatore ha tanti strumenti per provare ad affrontare gli “ostacolatori”, i “bastian contrari” di turno.

59. Corpo e cervello: come l’uno e l’altro vengono embricati nella facilitazione?
Corpo e cervello risentono di leggi proprie interne e di costanti interazioni col fuori sociale e ambientale. Tutti sistemi aperti. Quindi corpo-cervello-relazioni si assemblano in formule istantanee che liberano la vita della mente (incarnata e relazionale). La facilitazione conosce le funzioni del cervello-corpo e prova a intervenire coi modi di parola per creare un ensemble poderoso. Di un sistema dentro a un altro per un mosaico interdipendente molto costruttivo e liberatorio.

60. La negatività è la buca dove piantare l’albero della positività. Questo è un concetto che cambia il paradigma sulla negatività…, la negatività secondo te è indispensabile?
La negatività non decidiamo di agirla, ma è dentro e tra di noi. Persone e aziende che curano questa ecologia del giorno-notte o buca-albero, tendono a procedere in maniera più spedita, perché mettono in connessione elementi, aprono lo spettro di conoscenza, operazioni che hanno già di loro un’impronta trasformativa.

61. Qual è la soglia di negatività in cui la facilitazione perde di efficacia o perde di senso?
La negatività è nel novero dell’aggressività. Il passaggio verso il polo più acuto si chiama violenza, qui il facilitatore sospende la sua azione e bisogna rivolgersi alle forze dell’ordine. Crediamo che però un facilitatore un po’ attrezzato possa fronteggiare negatività basse (lamenti, opposizioni) e anche alte (insulto e furore), ma oltre no.

62. Cosa vuol dire sostare per un facilitatore?
Sostare vuole dire in alcuni casi rallentare, fermarsi, riflettere, aprire considerazioni nel gruppo, del tipo “come va il nostro lavoro?”, “come vi sentite?”, “questo aspetto cosa vi suscita, quali pensieri e quali sentimenti emergono?”.

63. Produzione e Partecipazione sono da “piegare”, cosa vuole dire?
Uno, viaggiano parallele senza incontrarsi. Due, tendono a eccedere una sull’altra. Tre, piegarsi sta a significare che con metodo un facilitatore le interpella, le tiene in considerazione entrambe, metafora, è come un toro con le sue due corna. In sintesi il termine “piegare” vuole dire spingere all’integrazione, metterci caparbietà e impegno, perché si connettano, si rispettino, si modellino una con l’altra.

64. Un facilitatore nei diversi ambiti usa sempre le stesse tecniche?
Direi di sì e anche di no. Sì, perché ha la cassetta degli attrezzi di base, nella testa, nei gesti e nel sentimento. No, perché il nostro approccio è situazionale, ovvero, si adegua alle specifiche situazioni.

65. Le parole sono finestre, oppure muri, qual è il contributo della facilitazione al processo umano e sociale della comunicazione.
La comunicazione come competenza è stata introdotta nelle aziende a partire dagli Ottanta, perché si era colto la sua forza propulsiva. Quindi è poi seguita la stagione delle emozioni, dell’intelligenza emotiva dei Novanta, al cui centro resta sempre il linguaggio. Nei Duemila si è capito infine della componente innata, comunicare è un imperativo biologico naturale, che ci dà connessione e contenimento.

 

 

Ma quante belle tecniche…

66. Cosa si intende per comunicazione circolare e qual è l’attenzione più rilevante che mette in pratica il facilitatore per garantirla?
Circolare vuole dire che in un tavolo o in un’aula, siamo capaci di far girare la parola tramite il cambio turno, moderando i verbosi e incoraggiando i timidi. L’attenzione è sul concetto di ritmo, una sensibilità che si forma col tempo, quando cioè i cambi di parola compongono dei “saltelli buoni”, come delle fontanelle che zampillano, al posto della verbosità che mette al tappeto. Occorre sfavorire il monologo che di suo esclude e alimenta la dispersione!

67. La parola circolare alimenta il flusso facilitato? Se sì, perché?
Sono diverse le cose buone che produce: forma un allineamento, crea aderenza alla situazione, aumenta l’attenzione, spinge verso dentro le persone per quel suo moto circolare che provoca una spinta centripeta verso dentro, non ultimo, carica il cervello, fa sentire le persone più piene.

68. Quali tecniche per disinnescare il sabotaggio di un soggetto denigrante?
Abbiamo molto collaudato lo strumento della parola chiave, grande invenzione di Jerome Liss. Occorre evitare più possibile la disconferma, ed estrarre invece una parte della frase di sabotaggio, per ricavarne qualche elemento concreto, passare cioè dalle opinioni denigranti ai fatti concreti, che risulteranno così più affrontabili.

69. Nel caso di conflitto aperto e animato (litigio evidente) tra due parti come gestire gli schieramenti degli altri membri?
Nello scontro, non funziona idealizzare la pace, conviene invece far emergere le critiche incrociate. Dopo tre turni tra le parti confliggenti, conviene aprire sul gruppo, chiedendo pareri aggiuntivi. Questa mossa tende a stemperare l’attrito tra le due parti e ad ammorbidire la dinamica e dare voce a persone terze. Non tutte vorranno esporsi, ma alcune lo fanno senza troppo indugiare.

70. Nel caso di conflitto latente e non dichiarato come si gestiscono le due parti tenendo conto degli effetti di condizionamento sugli altri membri del gruppo?
Non abbiamo troppe vie da percorrere in questo caso. Una da tentare è evitare discorsi formali ed evitanti, frasi ampollose e razionali, cercando piccole aggiunte semplici e sentite. Occorre spingere in una via più emotiva e non tanto nella solita razionale. Un buon mix sarebbe auspicabile.

71. Il “corpo esperto applicato”, in epoca covid e di distanziamento fisico come si può applicare?
Con la mascherina sul volto, distanziati, possiamo comunque agire la gestualità al tavolo, esprimere con gli occhi (più difficile), ricercare un comportamento comunque genuino, flessibile, non troppo ingessato. Nella nostra Scuola, quando si fa didattica in presenza, per il cambio di posto nell’aula (prossemica dinamica), ogni partecipante si porta dietro la sua sedia. Sul digitale, conviene fare attenzione alla postura, alla faccia, e cercare piccoli movimenti per generare presenza, tra cui anche il respiro e l’uso della musica.

72. L’apprezzamento altruistico è praticato per rendere il clima più umano?
Il focus umano è riconoscersi: il riconoscimento è dato dall’essere visti dall’altro. Contro la malattia dell’indifferenza e della solitudine. L’apprezzamento Berne lo chiama “carezza”, Schein “personizzazione”, Porges “ingaggio sociale”. L’apprezzamento è il meglio che possiamo donare all’altro, perché trattasi di un riconoscimento positivo che una volta ricevuto “ci fa volare” nel vero senso della parola.

73. Ascoltare tutte le voci per il facilitatore è sufficiente?
Beh è un passo chiave l’ascolto e anche il dialogo. Però non basta. Occorre saper sostare nelle negatività in maniera umana e organizzata allo stesso tempo. Dobbiamo quindi avanzare su negoziazione e decisione, quale atto complesso, in cui le parole passino da intenti a fatti. Come un bruco diventa farfalla. Una metamorfosi bellissima, il fare sia nella parola e la parola sia nel fare.

74. Come si capisce preventivamente se la situazione consente di ricorrere a tecniche di circle-time, utilizzare la musica, lavorare con il corpo?
In parte, se il gruppo è con la mente presente, non mostra troppe inibizioni o distrazioni, e non è in preda alla “morte apparente”. Un gruppo normale insomma, con i suoi lati facili e difficili. Ma qui il facilitatore se non mette coraggio, non va da nessuna parte. Un’allieva infermiera, ha introdotto per esempio la musica e il ballo nei briefing nell’équipe e ha verificato che i suoi colleghi glielo richiedono, per cui spesso le realtà superano in meglio le nostre titubanze. Bene no?

75. Quali domande si possono fare per capire se ci sono le condizioni?
Prima possiamo provare con il concetto semplice, con parole povere, che il corpo in movimento produce più attenzione e più memoria e il corpo statico entra in un’attenzione fluttuante di quasi dormiveglia. Poi con una piccola proposta sulla quale ci saranno di certo i favorevoli e i resistenti, con garbo procederei, rispettando sia gli uni che gli altri. Rispettare e spingere.

76. Nella riunione produttiva il facilitatore soffoca le critiche o le accoglie senza pregiudizi?
Il facilitatore non è un santo o un monaco, no. Proviamo con sforzo e metodo ad accogliere ed esplorare le critiche, certo. Proviamo a fare tuttavia quello che possiamo.

77. Come si affronta, ad esempio durante le riunioni, il negativo degli interventi?
Il negativo richiede accoglienza e contenimento, poca disconferma e tanta esplorazione. In una frase tipo “sto male”. Non funziona la risposta “non è vero, dai, hai una bella faccia”. Funziona invece “male per cosa, racconta…”

78. Chiedere scusa con un “terzo tempo”, è possibile o bisogna acquisire formazione per migliorare le relazioni di lavoro, che non devono essere necessariamente amicali?
No, chiedere scusa è alla portata di tutti, proprio tutti, con o senza formazione. Poi una formazione aiuta. Terzo tempo, voce del verbo “riparare”. Nei corsi studiamo il terzo tempo anche quando “va in aceto”. Esempio, chiedo scusa e l’altro mi dà addosso, fa il maestrino, che faccio? Evito di battibeccare, l’altro è più forte in quel momento, ribadisco il mio intendimento riparativo, lo esplicito bene e mi congedo.

79. L’umiltà, l’umorismo, la leggerezza, vengono praticati per curare sé e gli altri?
Certamente sì! I nostri cervelli di loro sono agitati, in ansia, si induriscono per poter affrontare i colpi della vita. Lavorare, condividere, farsi gruppo richiedono anche facoltà “morbide”, flessibili, un piccolo bagno di qualità femminili, ricettive e coesive.

80. L’ascolto profondo è una dote o si può imparare?
Si può imparare, come del resto l’umorismo, l’assertività, il linguaggio del corpo intenzionale e tanto altro. Imparare vuol dire studiare e provare, poi ancora provare e poi studiare. Aggiungendo quel nuovo apprendimento nei gangli della propria personalità.

81. Come gestisco un relatore logorroico in una riunione online?
Online o in presenza cambiano alcune cose ma neanche troppo. Serve il coraggio e serve un po’ di metodo: a) attivarsi col corpo; b) seguire con una giusta tensione il discorso lungo, pazientare; c) inserirsi appena è possibile; d) annunciare che si vuole turnare la parola; e) offrire la parola ad altri.

82. Quando il facilitatore può decidere di risalire dalla negatività verso la positività? Non è facile individuarlo.
La discesa senza risalita non funziona, come anche la risalita senza discesa non va. Una è in funzione dell’altra. Nei gruppi è così insolito l’uso di una capacità esplorativa delle negatività, che alle persone noto che non gli sembra vero. Nella scelta per la risalita ti può aiutare il tempo, l’orologio, esempio, se abbiamo dieci minuti in tutto, dopo sei puoi andare in risalita verso le soluzioni.

83. Come riuscire a far sorgere le domande?
Tre le piste utili: a) creare un ambiente franco, schietto, diretto, reale (non finto); b) portare lo scambio a livelli delle cose concrete, le cose quotidiane; c) porre alcuni dilemmi, dubbi, cose incerte, che squarciano la questione o il problema, provocando curiosità e inclusione (caricano il cervello).
84. In un gruppo molto diversificato come fare a trovare la vena inclusiva e coinvolgente?
È sempre l’ambiente franco, genuino, vicino ai fatti, ai luoghi e alle persone. Poi la concretezza aiuta. Poi il ritmo e il cambio turno danno vitalità e spinta.

Le difficoltà, ce ne sono tantissime!

85. Qual è la critica più grande che come facilitatore hai ricevuto nel tuo lavoro?
(Pino De Sario) Il pensiero va ad alcuni episodi. Firenze, allieve che spazientite mi dicono “ma queste cose le abbiamo già fatte”. Roma, una co-docente che mi aggredisce “non è vero che il ‘perché’ indagativo non funziona, noi lo usiamo”. Roma ancora, al mio modo di fare gruppo salta su uno con “questi metodi ecumenici mi trovano perplesso”. Milano, allievo della mia Scuola che afferma “le varie didattiche si sono svolte in maniera troppo poco strutturata”. Qualcosa c’era, ma con assunti a mio avviso esagerati. Ma anch’io a volte sui temi a cui credo metto enfasi, per il valore profuso, ma anche per le “ferite” del mio passato, gli aspetti non risolti, che dormono dentro di me e che all’improvviso escono fuori.

86. Quale una difficoltà incontrata?
(Pino De Sario) Da principiante mi prendeva l’ansia rispetto a persone introverse che mi incutevano soggezione. Oppure, i verbosi monopolizzatori, mi trasmettono ancora oggi agitazione. Molti allievi che avevano adottato la positività come unico parametro di riferimento. Poi, alcuni giovani e con poca ricerca su di sé, quando snobbano le parti sulla negatività. Ma hanno ragione loro.

87. Come sei partito con la tua ricerca?
(Pino De Sario) Da ignorante della materia avevo immaginato che ci fosse un modo diverso di fare gruppo e riunioni. Sono partito da questa molla interna e tutta empirica, improvvisata! Poi ho incontrato Jerome Liss e lavorato con lui per trenta anni, ho studiato psicologia e poi neurobiologia, ho seguito corsi, seminari, ho studiato autori e approcci. La mia palestra è stata comunque la Biosistemica e la facilitazione proposta da un immenso Jerome.

88. Come faccio a guadagnarmi la fiducia dei partecipanti? A volte, come facilitatrice, mi sembra mi vedano come una “spia”?
Il segreto è l’umiltà, non tirarsela, sintonizzarsi col gruppo sulle corde umane, semplici. Non insistere per giustificarsi e avere sempre ragione. Ammettere la fragilità e la propria vulnerabilità. Facendo così le persone tendono ad abbassare la rudezza, ad allearsi e a competere meno.

89. Durante la facilitazione online di un gruppo, come vanno gestiti i momenti di silenzio?
Bella domanda. Beh ammettendo l’imbarazzo dentro di te. Poi con un po’ di umorismo, io per esempio dico “mi raccomando uno per volta, altrimenti vi accavallate” e invece c’è un silenzio da brivido. Poi il silenzio è anche riflessivo, c’è bisogno di pensare e riprocessare le cose emerse. Poi è un’occasione per una pausa, per una punteggiatura, in cui magari cambia il quadro, si volta pagina.

90. Come passare in un gruppo dalle fazioni contrapposte alla collaborazione?
Un grande psicologo americano, Albert Ellis, dice su noi umani che “siamo tutti degli svitati del cazzo!” Dunque, bisogna accogliere questa dimensione di imperfezione e di possibile regressione sempre pronta. Non abbiamo come facilitatori la bacchetta magica. Le fazioni vivono nelle teste e nei corpi, in una cabina mentale a mo’ di archivio, detta repertorio, ovvero, dove stazionano le tante situazioni pregresse che non si cancellano con un colpo di spugna. Il meccanismo è automatico e completamente inconsapevole e l’avvertimento, il ragionamento, quasi sempre si rivelano inutili, il cervello ha funzionamenti davvero complicati. Abbiamo tutti la tendenza ad allargare le categorie dei pericoli e delle negatività anche quando esse calano, altro fattore di “inclinazione alla negatività”. Quindi, la prima mossa efficace è mettere in conto che le fazioni esistono e il facilitatore si specializza su come accoglierle, contenerle, ma anche su come intercettarle e spingerle a confrontarsi. Possiamo voler bene alle fazioni.

91. Come controllare la propria negatività verso il cliente o l’utente?
Qui ci vuole un lavoro su di sé, lo chiamo laboratorio formativo, i metodi non sono sufficienti. Il laboratorio aiuta a vedere sé, immaginare come il proprio comportamento possa risultare sgradevole, la chiamiamo auto-osservazione, una delle “forme vitali” del facilitatore. Con questo sguardo “auto-osservatore” possiamo far crescere la vigilanza verso cliente e utente. E a volte poi, col “terzo tempo”, scusarsi per un proprio errore o malinteso.

92. Con quali tecniche affrontare i muri di gomma?
Con la concretezza, scomponendo le questioni e i problemi. Con il sentimento, chiedendo cosa provano o cosa gli passa nella testa. Sono due tentativi. Altrimenti, provare a lavorare sul gruppo ampio e sulla situazione e vedere se questo li muove un po’. Ultima, rispettarli, che è anche la prima.
93. Nella conduzione di un gruppo ci possono essere più facilitatori?
Sì. Che bello! Se i due non si conoscono conviene fare la staffetta, una parte conduco io e un’altra vai avanti tu. Se ci conosciamo invece, se c’è intesa, direi che si può procedere in tandem. Molto interessante per la completezza che si può raggiungere.

Sostenibilità e gestione delle crisi: un “facil” nel motore!

94. Perché in questi anni sta assumendo maggior importanza la facilitazione?
Per la necessità di pensiero complesso, di pluralità. Si sta capendo che la globalizzazione, il digitale, le crisi, l’insostenibilità dello sviluppo, li possiamo affrontare con la coralità e con le connessioni buone tra interessi, categorie, discipline e la facilitazione è degnissima candidata, potremmo chiamarla “facilcrazia”. Quando lo sviluppo economico, sociale, ambientale sono correlati, dialoganti, quando si inserisce il concetto di “ponte” tra le diverse sponde. Il suffisso “inter” farà da padrone, credo. E qui noi facilitatori spingeremo per affermare anche il suffisso “facil”: facil-connessioni, facil-dipendenti, facil-gruppo.

95. Durante un’emergenza (calamità, pandemia) o nella quotidianità avere competenze di facilitazione può fare la differenza?
Le crisi e le emergenze tendono a chiudere i cervelli, a portarli sul piano fisico-corporeo nella componente primitivissima rettiliana. In quei casi di emergenza gli scambi vanno condotti in forma umana e molto semplice, con pensieri corti, con parole pratiche elementari, non è il momento per istruzioni complicate, ma neanche per moralismi e filosofie. Molto scetticismo nelle crisi nasce da comunicatori anche preparati, ma che non azzeccano il “registro” giusto, l’onda sensibile con cui dire le cose.

96. I facilitatori hanno un codice etico? Un impegno a non divulgare informazioni riservate?
Non esiste un codice proprio del ruolo. Io per esempio in quanto psicologo aderisco al codice del mio ordine, come altri possono riferirsi a quello della loro professione di appartenenza.

97. Che ne pensi della facilitazione applicata al mondo della scuola e nella didattica?
Ne penso il meglio possibile, stiamo divulgando dal 2011 gli strumenti dell’insegnante-facilitatore, oltre alla gestione della negatività in classe. Ma anche la leadership integrata, direttiva e anche partecipativa, che l’insegnante può applicare coi ragazzi.

98. Praticare la facilitazione: possiamo considerarla anche un’opportunità per accrescere l’impegno individuale nella società e per partecipare come cittadini alla vita democratica?
(Pino De Sario) È proprio così. Ma preferisco raccontare di un episodio personale in cui ho mostrato davvero incapacità: una sera, grande assise di genitori per l’aumento delle tariffe della mensa scolastica. Un gruppo di papà agguerrito interrompe spesso l’assessora, disturba, vocia. Sui contenuti ero mediano, tra l’assessora e i papà, ma ad un certo punto non ci ho visto più e ho preso la parola, in modo molto sgarbato, per azzittire il gruppuscolo e tentare di andare su uno scambio più rispettoso. Un intento nobile, ma una modalità davvero da frana.

99. La facilitazione può sostenere un processo autorganizzato? Se si come?
Ne siamo convinti, sì! A patto che ci sia un po’ di capacità, per capacità intendo i metodi, ma i metodi che diventino buon senso e gestione accurata della latente competizione, invidia ed egocentrismo, che sono sempre vivi dentro tutti noi.

100. Gli aspetti imprevedibili derivanti dalla pandemia e dalla sua gestione, a tuo parere, comporteranno una rivisitazione del sapere e delle tecniche affermatesi della facilitazione?
Crediamo che ogni cambio di epoca possa essere spaesante ma anche rigenerante. Il cambiamento, ogni cambiamento, dato che viene sempre contrabbandato da tutti, è davvero difficile, costa sforzo e dolore, crea incertezze, fa emergere parti di noi che non sapevamo di avere. È un po’ come fare un viaggio in terre lontane, dove dobbiamo ripartire da zero in fatto di lingua, cibo, usanze, costumi. Così è il cambiamento. Dannato e meraviglioso! Di qualità e di rischio. Un cambiamento da praticare per contribuire a un mondo più affettuoso.

I disegni sono di Filippo Amidei


Invia la tua domanda!

Condizioni D.Lgs. 196/03 e Regolamento (UE) no. 679/16. *
Ho preso visione dell'informativa sulla privacy (Leggi).


Captcha
Reinserisci il codice di seguito, per prevenire richieste di informazioni spam.
captcha